La Casa Malaparte a Capri e la cucina di Tognazzi
Je t'ai aimée tallement, maintenant je te mepris.
Ti amavo così tanto. Adesso, invece, ti disprezzo.
Ti amavo così tanto. Adesso, invece, ti disprezzo.
Sono le parole con cui una splendida Brigitte Bardot gela i sentimenti del marito Michel Piccoli nel film di Godard, Il disprezzo, ispirato all'omonimo romanzo di Alberto Moravia.
Il palcoscenico di questa pellicola del 1963 è la splendida Casa Malaparte di Capri, adagiata su uno stretto promontorio roccioso a picco sul mare. Per arrivarci, una sottile linea di pietre costituisce il sentiero da percorrere a piedi dalla lontana strada. Così come vediamo fare, bagagli alla mano, alla Bardot e Piccoli, la coppia in crisi che raggiunge così il teatro dove si consumerà il dramma della separazione. Lei, in pratica, lo lascerà per una seconda primavera – sfortunata – con un produttore americano, Jack Palance.
La scena fatidica avviene sulla lunga ed esotica terrazza, che si staglia uno sfondo da tragedia greca: roccia nuda, alberi a picco sul mare e il rumore delle onde. Inoltre, il suggestivo rosso pompeiano delle pareti esterne della villa colloca la storia indietro di duemila anni, compito facilitato dai continui riferimenti all'Odissea di cui è costellato il film.
Una location perfetta per questo tipo di dramma, quella offerta dalla casa che lo scrittore e giornalista Curzio Malaparte si fece costruire alla fine degli anni Trenta. A progettarla e realizzarla, l'architetto Adalberto Libera, capofila della corrente razionalista.
Le strutture interne riflettono le posizioni di Libera: ambienti grandi e semplici, arredati con gusto sobrio e castigato, che nulla perdono però in fascino e bellezza. Le stanze ruotano intorno a un enorme salone che si apre sulle quattro pareti, grazie ai finestroni scenografici, alle differenti vedute offerte dal panorama del promontorio. Il vero preziosismo di Casa Malaparte, ad ogni modo, è costituito dal bellissimo terrazzo a gradoni che cammina sopra la zona abitabile, chiuso agli sguardi indiscreti da un particolare muretto a forma di virgola. Una sorta di trampolino proteso verso la natura incontaminata, alla ricerca dell'armonia con gli elementi.
Tutto l'opposto degli ambienti claustrofobici e ansiogeni che ospitano un altro (meno noto) film degli anni Sessanta, stavolta italiano: si tratta di Dillinger è morto, opera di Marco Ferreri.
Alle soglie della contestazione, nel 1968, il regista milanese ha ambientato una storia di ordinaria follia nelle case del pittore Mario Schifano e nella cucina di Ugo Tognazzi.
Nella cornice di una tipica casa borghese italiana degli anni Sessanta, in mezzo a librerie, stampe, elettrodomestici e arredamento d'epoca, un uomo (ancora Michel Piccoli) compie una serie di normali azioni domestiche, quotidiane. Tra queste, però, con la stessa disinvoltura (o piuttosto alienazione) con cui cucina o guarda la tv, Piccoli apre una scatola, culla tra le mani una pistola e la usa infine per sparare alla moglie nel sonno. Poi, esce di casa e se ne va al mare, serafico.
A questo punto, vale forse la pena di chiedersi se non sia meglio vederlo al cinema, il cinema, senza portarlo in terrazza o peggio in cucina.
di Stefano Vannucci
Il palcoscenico di questa pellicola del 1963 è la splendida Casa Malaparte di Capri, adagiata su uno stretto promontorio roccioso a picco sul mare. Per arrivarci, una sottile linea di pietre costituisce il sentiero da percorrere a piedi dalla lontana strada. Così come vediamo fare, bagagli alla mano, alla Bardot e Piccoli, la coppia in crisi che raggiunge così il teatro dove si consumerà il dramma della separazione. Lei, in pratica, lo lascerà per una seconda primavera – sfortunata – con un produttore americano, Jack Palance.
La scena fatidica avviene sulla lunga ed esotica terrazza, che si staglia uno sfondo da tragedia greca: roccia nuda, alberi a picco sul mare e il rumore delle onde. Inoltre, il suggestivo rosso pompeiano delle pareti esterne della villa colloca la storia indietro di duemila anni, compito facilitato dai continui riferimenti all'Odissea di cui è costellato il film.
Una location perfetta per questo tipo di dramma, quella offerta dalla casa che lo scrittore e giornalista Curzio Malaparte si fece costruire alla fine degli anni Trenta. A progettarla e realizzarla, l'architetto Adalberto Libera, capofila della corrente razionalista.
Le strutture interne riflettono le posizioni di Libera: ambienti grandi e semplici, arredati con gusto sobrio e castigato, che nulla perdono però in fascino e bellezza. Le stanze ruotano intorno a un enorme salone che si apre sulle quattro pareti, grazie ai finestroni scenografici, alle differenti vedute offerte dal panorama del promontorio. Il vero preziosismo di Casa Malaparte, ad ogni modo, è costituito dal bellissimo terrazzo a gradoni che cammina sopra la zona abitabile, chiuso agli sguardi indiscreti da un particolare muretto a forma di virgola. Una sorta di trampolino proteso verso la natura incontaminata, alla ricerca dell'armonia con gli elementi.
Tutto l'opposto degli ambienti claustrofobici e ansiogeni che ospitano un altro (meno noto) film degli anni Sessanta, stavolta italiano: si tratta di Dillinger è morto, opera di Marco Ferreri.
Alle soglie della contestazione, nel 1968, il regista milanese ha ambientato una storia di ordinaria follia nelle case del pittore Mario Schifano e nella cucina di Ugo Tognazzi.
Nella cornice di una tipica casa borghese italiana degli anni Sessanta, in mezzo a librerie, stampe, elettrodomestici e arredamento d'epoca, un uomo (ancora Michel Piccoli) compie una serie di normali azioni domestiche, quotidiane. Tra queste, però, con la stessa disinvoltura (o piuttosto alienazione) con cui cucina o guarda la tv, Piccoli apre una scatola, culla tra le mani una pistola e la usa infine per sparare alla moglie nel sonno. Poi, esce di casa e se ne va al mare, serafico.
A questo punto, vale forse la pena di chiedersi se non sia meglio vederlo al cinema, il cinema, senza portarlo in terrazza o peggio in cucina.
di Stefano Vannucci
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